L’economia della biodiversità |Gianluca Brunori
Written by Gianluca Brunori
Le comunità del cibo affrontano una delle tematiche centrali del dibattito di oggi, cioè in che modo le comunità locali possono “controllare”, orientare le proprie economie senza farsi travolgere da quello che succede nel resto del mondo. Una delle chiavi di comprensione di questi aspetti è nel diverso rapporto che vediamo tra natura ed economia. Nel passato si è creduto che il conflitto tra natura ed economia fosse naturale. Negli ultimi anni siamo arrivati a capire che esistono degli elementi di competizione, ma tra natura e economia possano venir fuori delle sinergie e queste dipendono dalle forme di economia che riusciamo a costruire. Le comunità del cibo sono una delle componenti di quella che io chiamerei l’economia della biodiversità[1].
Per capire questo secondo me bisogna adottare un nuovo paradigma, secondo cui la biodiversità rappresenta un capitale e analogamente al capitale monetario permette di creare valore. La biodiversità non è un qualcosa che rimane lì e si conserva; piuttosto il capitale deve essere utilizzato per creare valore, e nello stesso tempo deve essere mantenuto. La manutenzione e la creazione di valore sono due facce della stessa medaglia perché nel momento in cui si crea valore si riesce anche a mantenere questo capitale.
Allora in che modo si può valorizzare questo capitale? La diversità naturale è legata strettamente alla diversità economica e sociale. Le diversità economica, sociale e naturale si alimentano a vicenda e quindi bisogna trovare delle forme per generare un circuito virtuoso tra queste tre diversità. Il cibo è la principale area di applicazione di questo paradigma. Pensiamo, per esempio alle diversità della dieta: c’è un autorevole documento che è uscito recentemente sulla rivista Lancet (una rivista medica) un lavoro a cui hanno partecipato una cinquantina di esperti, che ha messo chiaramente in evidenza in che modo la diversità sia legata alla salute: una dieta diversificata, una dieta basata fondamentalmente su piante, prima ancora che sui prodotti animali per i quali per altro non c’è nessun pregiudizio, è un fattore non solo di promozione della salute, ma è un fattore di promozione anche della salvaguardia dell’ambiente. Nella ricerca della dieta sostenibile la biodiversità ha dunque un ruolo fondamentale.
Poi c’è il problema delle diversità nelle produzioni agricole e in questo caso vediamo come a livello europeo – non è certo il livello europeo che ha insegnato alla Toscana questo tipo di cose – si comincia a parlare di una transizione verso un modello agroecologico che è bastato sostanzialmente sulla valorizzazione della diversità nelle pratiche agricole.
La diversità economica è legata alla possibilità delle aziende – anche quelle più piccole – di partecipare alla creazione di valore. Attraverso le comunità del cibo le aziende agricole sono in grado di disegnare modelli di economia diversi. La diversità sociale è importante perché la società non è un qualcosa di separato dall’economia, ma è un qualcosa che forma e contribuisce a formare le economie locali. Una comunità diversificata partecipa, sostiene e promuove la propria economia.
Tutti questi aspetti si ritrovano nell’idea di comunità del cibo. È un’idea che viene da lontano, perché a fronte di un modello economico basato sulla competizione individuale, la comunità del cibo propone un modello che si basa prima di tutto sulla cooperazione, poi non si esclude il fatto che esista una competizione, ma la cosa rilevante è che dalla cooperazione si generano opportunità di sviluppo.
Non è un caso che nel modello toscano le reti di cooperazione siano un perno strategico: pensiamo alle comunità del cibo ma anche alle comunità delle foreste o anche ai gruppi operativi. Queste reti creano le condizioni favorevoli per le attività economiche locale e di fatto generano innovazione perché attraverso la condivisione di esperienze, la condivisione di conoscenze, la messa in comune di risorse si genera innovazione. Non parliamo solo di innovazione tecnologica, che comunque è importante, ma anche e soprattutto di innovazione sociale, cioè la capacità di promuovere nuovi modelli e nuovi comportamenti. Pensiamo a quando parliamo all’alimentazione e alla dieta che sono regole di comportamento che sono radicate nelle mentalità delle persone, nella cultura delle persone e la loro trasformazione richiede è una forte componente di innovazione.
Ma io credo che l’aspetto che ci viene in qualche modo comunicato oggi con l’impegno così forte della Regione Toscana che ha ribadito dall’Assessore e dal Direttore Scalacci e dal Direttore Locatelli, è l’aspetto di innovazione istituzionale. Le comunità del cibo possono essere visti come dei soggetti che insieme ai decisori politici e insieme a chi produce ricerca, contribuiscono alla costruzione di modelli economici diversi per lo sviluppo di sistemi alimentari locali.
Le comunità del cibo sono importanti non solo in quanto creano economia – e abbiamo visto che attraverso di esse si creano circuiti locali di produzione e consumo dei prodotti della biodiversità – ma anche perché nel dialogo tra queste reti, il mondo dell’università e della ricerca e il mondo della policy, della pubblica amministrazione, questi elementi generano capacità di innovare, capacità di creare modelli che siano più adatti alla situazione che stiamo vivendo.
Sotto questo punto di vista, credo che l’aspetto della riflessione su quelli che sono i sistemi alimentari locali sia un punto centrale per la riflessione del prossimo futuro, perché da una parte ci rendiamo conto – e già per esempio il Coronavirus ce l’ha insegnato – che i nostri sistemi locali hanno bisogno di un certo livello di autonomia, avere una base produttiva in qualche modo locale. Nello stesso tempo però ci siamo resi conto che l’apertura, quindi la possibilità di aprire al commercio è importante e lo vediamo nel momento in cui – come in questi giorni – vediamo quali sono le ripercussioni della chiusura delle frontiere.
Quindi ci vuole da una parte capacità di controllo di questi flussi, nel flusso tra il locale e il globale, e c’è bisogno di cooperazione tra i diversi livelli: ciascuna comunità non può sopravvivere se fa da sola. Se da una parte le comunità locali hanno bisogno di un confronto e di una relazione con altri livelli amministrativi a partire da quello regionale, ma nello stesso tempo c’è la necessità di stabilire un diverso rapporto tra il pubblico, il privato e il sociale.
Noi vediamo che senza un apporto forte della società civile del volontariato, senza un rapporto stretto tra questi livelli e altri livelli dell’amministrazione, si va poco lontano, proprio perché è in questa terra di mezzo che si sviluppano le capacità migliori di innovazione. Le Comunità del cibo possono rappresentare un modello per nuovi modelli economici.
[1] Intervento al webinar “La Toscana e le comunità del cibo” – 20 Maggio 2020